Forse non perfetti, ma in edizione limitata

La rivista britannica Gay Times ha pubblicato un’interessante testimonianza di una ragazza (credo, a giudicare dal testo assolutamente impersonale ed anonimo, che si parli di una ragazza nda) asessuale e di come, anche, la cattiva informazione, e l’isolamento possano essere negativi per le persone che stanno cercando di ottenere una propria identità.

“Ci sono due cose -dice- che mi danno fastidio: il fatto di essermi sentita sbagliata per troppo tempo e di come il fatto che le altre persone non capissero abbia peggiorato la mia situazione”.

La rappresentazione sbagliata delle persone asessuali e gli stereotipi che continuano ad essere proposti da certe trasmissioni tv (e che, detto per inciso, ci ha portati a rifiutare buona parte degli inviti come ospiti), poi, potrebbe anche risultare deleteria, fino a mettere in discussione il proprio orientamento sessuale e la propria identità di persona.

“Quando ero più giovane ho visto un documentario che parlava delle persone asessuali: avevano una vita a dir poco miserabile, vivevano con i genitori a quarant’anni, non avevano una stabilità, nessuna relazione. Mi faceva cadere le braccia il fatto che io potessi anche minimamente essere una di loro, anche se non volevo”.

L’autrice (continuo a pensare che si tratti di una persona di genere femminile, chiedo scusa se sbaglio) arriva a sapere che essere asessuali non era quello che aveva visto nel documentario solo qualche anno dopo, quando incontra svariate persone della comunità Lgbt, “che mi hanno detto una cosa importante: essere asessuali non è una malattia, e non puoi curare una persona asessuale, come non puoi curare una persona gay, e soprattutto, non ce ne sarebbe neanche bisogno. Da quel momento, ho capito, ai miei amici la cosa è andata benissimo, ma dal resto della società sono iniziate le solite domande pressanti e i soliti stereotipi: non hai mai fatto sesso? È a causa di un trauma? Sei andata da un medico? Ma soprattutto è solo una fase”.

E questo, ha portato l’autrice a “rinchiudersi ancora di più nel suo guscio”.

“La vera svolta è stata quando la mia azienda ha partecipato come sponsor al Pride londinese del 2017. Li ho contattati ed ho chiesto se avessi potuto partecipare con la mia bandiera asex. Non solo, con mia sorpresa, mi hanno detto di sì, ma mi hanno anche detto che questo andava incontro al loro progetto di rendere più visibile la diversità”.

“Spero che in futuro -conclude- ci sia più informazione sulle identità meno conosciute dello spettro Lgbtqia, per far vedere quello che siamo veramente: forse non saremo perfetti, ma siamo in edizione limitata”.

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