Comunità asessuale italiana: appunti sparsi per dopo l’estate

Questione di etichetta

Non so che viso avesse, devo ammettere e, di conseguenza neppure come si chiamava, per quanto questa citazione, per una cosa successa alla stazione ferroviaria di Atocha, a Madrid, (ero lì lo scorso luglio, aspettando gli altri del gruppo asessuale per sfilare al World Pride) calzi a pennello.

Non sapevo neanche con che voce parlasse. Con quale voce, poi, cantava, non me ne fregava praticamente niente. Posso immaginarmi quanti anni avesse visto allora, che non penso potessero essere più di trenta e neanche di che colore fossero i suoi capelli, se devo proprio dire la verità mi interessava più di tanto, ma nella mente mia ho l’immagine sua: aveva un culo meraviglioso.

Un dramma mi sconvolse: insomma: io sono asessuale dichiarato, ed ero andato fino a lì per sfilare dietro lo striscione asessuale. I dubbi, mi sarebbero dovuti passare un po’ prima. Di solito, quando si esprime il proprio orgoglio, si dovrebbe aver messo tutto a posto…

Ma fosse solo quello: come mi viene in mente di fare una cosa così cafona da guardare parte (e quale parte) di una ragazza che, probabilmente, avrà avuto la metà dei miei anni o pochi di più, e di non ricordarmi nemmeno il resto?

E, da buon cafone, mi ricordo non solo di averle guardato il culo, e solo il culo, ma che, a distanza di due mesi, mi ricordo che fosse “meraviglioso”. Si badi: non “bello”, non “carino”, quanto mai “passabile”: proprio “meraviglioso”.

È forse un mio io eterosessuale che vuole uscire e che sto reprimendo? Ma il mio io dovrebbe guardare tutti i posteriori femminili. O, almeno, buona parte, per avere una casistica. Non uno in dieci anni!

Dopo tutto, non avevo nessun tipo di attrazione sessuale verso quelle natiche sulle quali Madre Natura aveva lavorato con così tanto profitto, quindi ero in regola con le definizioni. Era più un’attrazione artistica, come si guarda una statua o un quadro, che in quel caso, stava attaccato sotto la schiena di una che passava di lì. L’arte contemporanea, fa questo ed altro.

Non rientro in nessuna definizione, neanche in quelle rare e particolari che si trovano in alcuni siti americani. Le ho lette tutte.

Perché anche io voglio un sotto orientamento che sia inclusivo nello spettro asessuale per quelli come me che sono attratti esteticamente dal culo di una tizia vista per caso alla stazione di Atocha verso il tardo pomeriggio di sabato primo luglio duemiladiciassette mentre si aspetta di partire per la sfilata del Pride.

Posso avere il mio sotto orientamento? La mia “etichetta”?

È una cazzata, lo ammetto ma perché?

Perché se mi dichiaro, diciamo, demisessuale, ed ho questa etichetta, vengo preso sul serio, se invece dico che il mio orientamento sessuale è l’attrazione estetica sulle natiche di quella sconosciuta sono un cafone e prendo in giro gli altri?

(Mentre il lettore ci pensa, fischietti “The girl from Ipanema”)

Secondo me, il discorso di quelle che si chiamano, in gergo “etichette”, è chiaro: hanno un senso se ti aiutano a fare massa critica, ed a far considerare uno un gruppo di persone che, altrimenti, non avrebbero diritto di cittadinanza.

Ma se le etichette, dietro, non hanno un gruppo di persone che chiedono visibilità per il loro modo di essere, allora, sono lì giusto per fare del casino, e, anzi, hanno la potenzialità di togliere qualsiasi argomento alle prime: tutto finisce nel mucchio, tutti finiscono nella lista, sia chi ha un orientamento del quale bisogna discutere, sia chi ha notato il posteriore di una donna per la prima volta in dieci anni.

Per cui, se ha un senso dichiararsi demisessuali perché esiste un discreto numero di persone che chiedono di essere identificate così, metterne altre dove non esiste questa esigenza, o al tempo stesso non esiste un gruppo di persone, ma soltanto una, fa peggio.

Comunque, la storia del culo di Atocha, me la sono inventata. Io sono talmente asex che riuscirei a non girarmi per guardare una donna, ed è comunque una cosa da cafoni. Lo scrivo perché, anche nei nostri gruppi, ci sono personaggi che proprio, quando scherzi, loro non ci arrivano. Magari hanno dei pregi, ma non ci arrivano.

 

Niente attrazione: tutto lì?

Però, a parte le visioni che posso aver avuto in una stazione, potremmo fare un incontro con tutta la comunità asessuale, ed eleggere Miss Culetto Asex. Potremmo anche tirarci fuori dei soldi.

Sessista? Facciamolo anche per gli uomini. E per le persone non binarie, e per le persone trans.

Se il problema è solo di genere, si aggiungano pure tutti i generi conosciuti, purché abbiano un posteriore da farsi votare.

Facciamo anche Maglietta Bagnata Asessuale.

E la lotta nella gelatina.

E la lap dance. Anzi, voglio aprire un locale di lap dance asessuale: asex le ragazze, asex i clienti. Si può trasgredire giusto sul barista.

Anche qui, se la cosa vi pare sessista, mettiamoci dentro anche gli altri generi. Che problemi ci sono?

Dopo tutto, secondo quella che è l’idea che è emersa negli ultimi due anni (grosso modo), è che l’unica discriminante per dirsi asessuale, è non avere attrazione sessuale verso nessun genere.

E che compiere un atto sessuale, e desiderarlo per mille ragioni, purché sia senza attrazione, fa rimanere sotto lo spettro.

Allora, guadagniamoci qualcosa. Anzi, dirò di più: e se aprissimo un giro di prostituzione asessuale?

Dopo tutto, è proprio quello il momento nel quale si sublima l’idea del rapporto sessuale senza attrazione, eccetto quella per il vil denaro.

Come diciamo nei workshop? “Una persona asessuale può avere rapporti sessuali per piacere personale, per accontentare il partner oppure per solidificare il rapporto”.

E in cambio di soldi, potremmo aggiungere alla lunga lista.

No, eh? Qualcosa che non quadra anche questa volta? Non ne becco una…

Insomma: finire nell’antisessualità più inutile, non è una bella idea. E qui siamo tutti d’accordo.

Ma siamo sicuri che dietro quella che potrebbe anche essere una foglia di fico della mancanza di attrazione sessuale verso tutti i generi, possa starci proprio tutto tutto tutto?

Perché, se tutto va bene, purché non si provi attrazione sessuale, non sai dove finisci. E anche l’identità ne risente: viene allungata ed allargata così tanto che, alla fine, non esiste praticamente più.

Ed è sparita anche quella parte di autoironia che, tempo fa, riempiva i gruppi. Dove sono finiti i momenti asex, quei momenti di totale estraneità agli ammiccamenti che le persone “normali” comprendevano al volo, ai doppi sensi mai capiti alla prima? Una volta scrissi: “ho sentito la sveglia, stamattina, mi sono svegliato ma poi mi sono ricordato che è sabato. Deve essere quello che loro chiamano orgasmo”. Oggi riceverei questa risposta: “un asessuale può anche provare un orgasmo, qual è il problema?”

Non sono molti giorno che ho letto un post su asessualità e pratiche BDSM. Ed è solo l’ultimo di una serie di post negli ultimi mesi.

Se la asessualità non si porta dietro anche una seria discussione, ad esempio, sulla monogamia, sul sesso come possesso dell’altra persona, cosa rimane?

 

Vegani di quinto livello

Quanto abbiamo postato sul forum di Aven, o sul gruppo Fb, la storia di tutti come nostra presentazione (“credevo di essere sol* e malat*, adesso ho trovato gente come me”), avevamo disagio dei genitali e dell’atto in sé? Forse qualcuno, ma la maggior parte di noi, aveva avuto, e forse ha tuttora, delle relazioni. Il problema, non era mica la sola attrazione. Era tutto quello che girava attorno all’atto vero e proprio: la cultura del rimorchiare e del pucciare il biscottino, della depilazione laser definitiva altrimenti gli uomini non ti guardano, le overdose di testosterone e i pollai, l’ossessione per il fisico e per l’immagine. Noi siamo tutti, più o meno, scappati da questo tipo di cultura.

Negli ultimi sei mesi – un anno, noto un certo affiorare di questa cultura anche all’interno della nostra comunità. Certo, il tutto viene condito con una spruzzatina di sperimentazione e di consapevolezza, sempre all’interno dell’ambito LGBTQIA.

Questi gruppi sono un terreno fertilissimo per le cazzate, si cerca sempre di essere un palmo più avanti degli altri: e allora sei asex, poi asex ma stranromantic*, poi riconoscersi anche in un’identità di genere che sia stranogenere, poi in una visione stranofamiliare, e pratichi sì, sesso eterosessuale, ma in modo diverso e con finalità diverse dal resto del 99% dell’umanità che pratica sesso eterosessuale, fino ad arrivare alla meravigliosa immagine del vegano di quinto livello, in una specie di gara.

Attenzione: ad essere troppo avanti, si finisce in fuorigioco, e non si dà una mano alla squadra. Ed ho bazzicato troppi gruppetti per non vedere alcune persone della nostra comunità ben oltre, ma decisamente oltre la linea dei difensori avversari.

E se, da un lato, la foglia di fico, a questo punto, della mancanza di attrazione sessuale, porta ad esperimenti e a definizioni sempre più incomprensibili, dall’altra parte, allontana i nuovi arrivati.

È un dato di fatto che, ai raduni, partecipino sempre meno nuove persone da circa un anno.

D’altronde se, chi entra, si ritrova la stessa cultura che ha provato a rifiutare, anzi, aumentata per poter essere più avanti, per quanto mascherata da termini ed immagini compatibili ed inclusivi, è difficile che resti e che trovi qualcosa in comune.

 

Rendere visibile la comunità

Fermandoci su questa immagine, mi chiedo quindi se valga per tutti nello stesso modo la definizione di “visibilità” che la comunità deve ricercare.

Per me, significa che la comunità deve essere visibile e ben riconoscibile all’esterno del giro degli addetti ai lavori.

Siamo sicuri che talvolta, nelle sfilate dei Pride, non si sia cercata visibilità all’interno della sfilata stessa ed attraverso la comunità asessuale, anziché, come sarebbe auspicabile, cercare visibilità per la comunità asex, attraverso la sfilata?

Non è un discorso da poco, non è solo sintassi.

A scanso di equivoci, io considero che la partecipazione agli eventi dell’area LGBTQIA sia, per la nostra comunità, utile, stimolante e necessaria. Arriverei a dire indispensabile. E che i punti di contatto con le altre realtà che compongono la sigla siano da ricercare in modo costante.

La forza, infatti, della nostra comunità, era stata quella di portare al suo interno persone che mai nelle loro vite si sarebbero avvicinate ad una sede Arcigay, o avrebbero parlato alla luce del giorno con una persona transessuale.

Ma se abbiamo alle spalle anni di vacche grasse per l’attenzione verso le differenze, abbiamo, di fronte a noi, anni di merda per le stesse ragioni. Già negli anni di vacche grasse, per gli asessuali ci sono stati problemi di visibilità, immaginiamoci cosa possiamo avere di fronte. Se non affronteremo questo periodo buio come una comunità asessuale coesa, all’interno di una comunità ben più ampia ed attrezzata, rischieremo di mandare al macello sociale molti di noi, magari quelli che per cultura, per età, o semplicemente per geografia, hanno meno accesso alla comunità LGBTQIA.

Questo gruppo è stata la casa di molti, di quell’esercito di studenti, impiegati, operai e professionisti che hanno deciso di affermare la propria identità, sfidando, spesso, l’ambiente dove passano la maggior parte del loro tempo, e queste persone sono state la forza e anche il fattore di attrazione della nostra comunità: se agli incontri partecipano persone “comuni”, allora anche io posso farne parte. Se vedo solo persone troppo complicate, mi sento a disagio. Non è più casa mia. È umano.

È fondamentale che chi si avvicina, trovi una identità (non uno stereotipo, attenzione), nella quale riconoscersi, anche solo in parte. C’è quasi da rimpiangere l’epoca (in realtà quattro-cinque anni fa) delle torte e degli anelli neri.

Parlando di questo, vorrei fare una deviazione, l’ennesima: l’unico sistema per tenere insieme questa comunità, è territorializzarla. Ho letto, sia sul gruppo, che sul forum di AvenIt, post di presentazione di giovani, neanche ventenni che chiedevano “dove fosse una sede” di un’associazione asex. Questo è per rispondere a quanti pensino che si possa rivivere l’epoca delle torte, semplicemente attraverso un forum su Internet: scordatevelo. Oggi Ciccio91 non perde tempo a scriversi due anni con Clarabella87 (purtroppo, sotto certi aspetti). Oggi, la gente ti vuol vedere in faccia, vuole sapere chi tu sia oltre il nick, perché nella Rete, da una decina di anni, c’è più roba falsa che vera. Fine della deviazione.

 

Creare una casa ed un’identità

Dobbiamo dare una casa alle persone asessuali che stanno fuori dell’ambiente LGBTQIA. Cercarle esclusivamente al suo interno, dà, oltretutto, allo stesso ambiente, una somma algebrica pari a zero, ed il nostro contributo alla causa sarebbe nullo, dal punto di vista numerico. Per quanto quest’anno abbiamo fatto amicizie interessanti in questo modo.

Non voglio prendere neanche in considerazione quelle persone che, nelle comunità virtuali asex, sono professioniste del lamento, quelle che cercano tutti i modi per far vedere che loro non hanno bisogno di visibilità, e, per ultima, quella schiera di morti di fica che pullulano nei forum e nei gruppi. Questi li considero uno spreco di banda, di tempo, e talvolta, anche di ossigeno.

Ma quando leggo o ascolto persone che ho avuto il piacere di conoscere, e che non appartengono davvero a questi gruppi di perditempo, lamentarsi perché non si riconoscono più nell’andamento corrente della comunità, allora dico, io per primo: forse è il caso di parlarne un attimo, e di verificareche la direzione presa sia quella giusta.

E, se proprio la devo dire tutta, considero, anzi, una cosa decisamente da provinciali quella di importare qualsiasi iniziativa provenga dai paesi anglosassoni. Non è detto che una cosa fatta a San Francisco sia per forza migliore di una fatta a Milano o a Roma, e non è scritto da nessuna parte che ciò che proviene da quelle latitudini debba essere accettato in maniera acritica. Sono stato alla “Conferenza Internazionale sull’Asessualità” a Madrid, il giorno dopo la sfilata del World Pride. Tra gli attivisti venuti dall’America o dalla Gran Bretagna, forse solo un paio sono in grado di dare lezioni a chi, da anni, in Italia, tiene incontri e concede interviste molto accurate sul tema dell’asessualità.

Quindi, non abbiamo bisogno di scimmiottare i nostri amici britannici e statunitensi. Il materiale, per cortesia, lo si faccia in italiano. Stessa cosa con le definizioni, cercando di evitare certe esagerazioni di quando i treni arrivavano in orario, ovviamente. Usare un’altra lingua dà l’impressione di qualcosa di “paracadutato” che poco c’entra con la cultura e la realtà locale. Invece noi non veniamo dalla luna, viviamo, studiamo e lavoriamo nelle cento città di questo Paese.

Non è detto, quindi, che le iniziative prese dall’altra parte del mondo, in una società diversa dalla nostra, siano per forza quelle giuste, si guardi piuttosto quali possono essere gli sbocchi per la nostra comunità, e se si dovesse tornare sui nostri passi per alcune priorità, non sarebbe davvero, per forza, un dramma.

La cosa più grave, invece, che potrebbe succedere sarebbe se un immobilismo o una probabile sottovalutazione di quelli che, ad oggi, sono soltanto segnali di allarme, facesse aprire buona parte della comunità asessuale verso personaggi ed associazioni non sempre in buona fede, e che non hanno quasi mai manifestato una seria politica di inclusività verso le minoranze.

Di solito finisco con “attendo insulti”. Stavolta penso di riceverne davvero, ma anche qualche proposta potrebbe essere benvenuta.

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