Manuale di sopravvivenza in un mondo non queer, vol. 1

Come si può essere attivisti e al contempo non litigare ogni sera. Grazie ai gatti e ai mini coni.

Qualche sera fa ho rivisto alcune persone del gruppo di amici con cui ho passato i miei vent’anni, e nel frattempo ne sono passati altri venti. Sapete, quelle persone di cui diventi amico perché ci cresci insieme, anche se c’entri poco con loro, e fino a quando vi vedete con regolarità tutto va bene, si è rodati ed eventuali asperità vengono arrotondate dall’amicizia.

Poi cominciano a divaricarsi le strade, chi parte, chi resta, chi si sposa, chi si riproduce, chi diventa dottore, e la vita continua. Si sviluppano le proprie idee, ci si costruisce un piccolo mondo di amicizie scelte per comunanza di interessi, magari si sviluppa anche una coscienza da attivista su certi temi. Si comincia a mettere in dubbio una serie di cose prima accettate in silenzio, come la propria eterosessualità prima data per buona d’ufficio, o la fondatezza della logica binaria applicata al genere.

E poi succede che presi alla sprovvista non si riesce a rifiutare un invito, e si torna a vent’anni prima. Con le battute sul “ghei pride”, sull’acronimo “troppo lungo che non vuol dire niente”, sulle lotte per i diritti che “avevano senso anni fa, ma ora che i diritti ci sono è cattivo gusto”, inutili provocazioni che “se c’è gente già omofoba la fa diventare ancora peggio, perché la provoca”.

E tutto questo in mezzo a discorsi sui migliori abbinamenti fra vino e pesce e sui ristoranti alla moda. Peggio di prima, direi. Almeno vent’anni fa non ci si atteggiava alla Gambero Rosso Channel.

A questo punto che si fa? Quando già hai i tuoi problemi perché la vita spesso non è tenera, e in più qualche annetto di militanza ace e queer ti ha messo a contatto con le sofferenze e le ingiustizie patite da quella che è a tutti gli effetti la tua comunità, quando hai collaborato alla realizzazione di un certo numero di Pride e poi li senti ancora chiamare “ghei pride” come quando ancora c’erano la lira e Giovanni Paolo II, che fai, gli meni?

Fai un coming out pubblico come asessuale e ti avveleni definitivamente la serata a spiegare una serie di cose, beccandoti incredulità e battutine?

O ti metti a litigare sulle rivendicazioni per concludere col sentirti dire che il vero intollerante sei tu?

A inizio del mio percorso di attivista lo avrei fatto. L’altra sera invece, forse perché stanco di mio, forse perché i mini coni al gelato di cassata erano buoni, o forse perché quelle persone dopotutto erano state davvero amiche, e comunque non davano importanza a ciò che dicevano, che in realtà erano frasi sentite altrove e ripetute, non ho detto niente.

E a un certo punto ho visto un gatto che placidamente si faceva i fatti suoi dando le spalle agli astanti, ma con le orecchie tese. Chissà quante ne sente ogni giorno, stando là. E se le fa scorrere.

Ho voluto prendere esempio dal gatto, e poi ho fatto ricorso alla migliore tattica quando girano le scatole: cambiare discorso.

“Oh, ma come è finito poi il posticipo?”

E il miracolo ancora una volta si è compiuto. Forse è per questo che hanno inventato il campionato, come argomento di riserva quando si dicono troppe idiozie su temi seri.

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