Asessualità, psicologia e salute mentale

Patologizzazione dell’asessualità e confusione con il disturbo sessuale ipoattivo

Appartiene al vissuto di molte persone asessuali o nello spettro il fatidico “consulto con lo specialista”. Cosa c’è da consultare uno specialista, se una persona sta bene? Domanda lecita, ma “stare bene” spesso è un concetto che ha più a che fare con le aspettative familiari e sociali che con il concreto benessere psicofisico individuale. Senza scomodare Foucault e la sua analisi della follia come fenomeno sociale, legato a un dispositivo di sicurezza collettiva, possiamo capire come l’esistenza delle persone asessuali possa rappresentare un elemento di crisi per una società che si fonda su ruoli assegnati fin dalla nascita. Se faticosamente, dopo decenni di lotte, si sta aprendo una breccia nella concezione di eterosessualità come “normalità”, e ancora più faticosamente nella ferrea convinzione che sia “normale” solo essere cisgender, il mito dell’allosessualità come condizione necessaria per il sano sviluppo della personalità rimane fra i più duri da abbattere.

“Ma come è possibile che non ti piaccia nessuno, che non desideri trovare unə compagnə di vita, avere delɜ figlз? Evidentemente ti manca qualcosa”. 

Ora, a parte il fatto che l’asessualità non consiste affatto nel “non desiderare avere unə compagnə o delɜ figlɜ”, il terrore di fronte a una persona che si dichiara asessuale, il bisogno di trovare “una soluzione”, indica come tale orientamento sia visto come minaccioso per un sistema, quello in cui viviamo, fondato su un certo tipo di sessualizzazione. E’ come se non si rispondesse a un particolare codice, a un ruolo, e per questo si minacciassero i “sacri valori”. E allora ci deve essere evidentemente qualcosa che non va. Non nella società, naturalmente, ma nella persona asessuale.

E così si apre un mondo di terapie, di sedute, di analisi del vissuto per scoprire il “trauma” che ha reso la persona asessuale, di consigli per “non avere più paura del sesso” (ma quando mai?), e in alcuni casi perfino di cure ormonali, perché “dev’essere un problema di testosterone basso” (e no, i livelli di testosterone non cambiano l’orientamento sessuale, al massimo influiscono sulla libido, che è un’altra cosa).

Per anni l’asessualità è stata trattata come una malattia, riconducibile al disturbo ipoattivo del desiderio sessuale, e come tale “curata”. Ma il disturbo ipoattivo del desiderio è appunto un disturbo, cioè una condizione che l’individuo vive con un senso di malessere e sofferenza, come qualcosa che non gli appartiene (egodistonica, dicono i manuali), e soprattutto si caratterizza come assenza patologica di desiderio in una persona che invece vorrebbe averlo. Quindi niente a che fare con l’asessualità, che non riguarda il desiderio, ma l’attrazione, e che non viene vissuta come un problema (a meno che l’individuo non venga spinto dall’esterno a vederla come tale) ma come una caratteristica naturale della persona.

La svolta (parziale ) del DSM del 2012 e l’inizio di una graduale depatologizzazione dell’orientamento asessuale.

Le “terapie riparative” che giustamente fanno orrore, o almeno dovrebbero, quando si parla di omosessualità, hanno continuato per anni a essere in qualche modo applicate dal mondo psichiatrico nei confronti dell’asessualità. Mentre l’omosessualità infatti è stata ufficialmente cancellata dall’elenco delle malattie mentali nel 1990 (alla fine di un processo iniziato negli anni ‘70), l’asessualità ha dovuto aspettare il 2012 per essere depennata dal DSM (manuale statistico dei disturbi mentali, redatto dall’associazione degli psichiatri americani), e in maniera parziale, visto che nella versione attuale si indica semplicemente che è da escludere la diagnosi di disturbo ipoattivo nei casi in cui la persona definisca se stessa come asessuale. E’ pur sempre qualcosa, ma è insufficiente, perché non tutte le persone asessuali sanno di esserlo, non tutte conoscono il termine e le sue implicazioni, e il rischio di finire in terapia per il proprio orientamento resta alto. 

La persona asessuale, nel modus operandi di parte della psicologia e della psicoterapia, rimane un essere incompleto, a cui manca “una dimensione fondamentale della vita”.

Negli ultimi anni, anche grazie alla lotta e all’attività di sensibilizzazione da parte di associazioni e militanti asessuali, l’approccio degli operatori psicologici sta gradualmente cambiando, ed possibile trovare medici e psicologɜ che conoscono l’asessualità e non la considerano una patologia, ma sono una minoranza e la strada da fare è ancora parecchia. 

Ma se le persone asessuali non sono malate, perché dovrebbero cercare un consulto psicologico?

La discriminazione e le pressioni sociali possono avere gravi effetti sulla salute mentale.  

La ragione è evidente: le persone asessuali non sono “malate di asessualità”, ma possono avere, come ogni essere umano, problemi di salute mentale. La mente umana è qualcosa di molto complesso, e la vita di tutti i giorni in un sistema sociale competitivo ma con le regole truccate,  pieno di disuguaglianze e di ingiustizie sottopone a livelli elevati di stress. A tutto questo per le persone asessuali si aggiunge lo stigma, diffuso a tutti i livelli, dell’inesistenza del loro orientamento, ricondotto a un generico “problema di timidezza” o a un “disturbo da curare”. Uno studio comparato sulla salute mentale considerato anche l’orientamento sessuale, condotto da Yule et al. del 2013, (ma i primi studi che mostrano dati simili risalgono già ai primi anni ‘80)  metteva in evidenza un livello d’ansia al di sopra della media per le persone che si dichiaravano asessuali. 

Sappiamo bene come per gran parte dell’opinione pubblica (e purtroppo anche del mondo psichiatrico) la relazione è di causa effetto (“stai male perché” sei asessuale”), ma questo studio, e altri successivi, hanno il merito di avere invece mostrato la correlazione fra i disturbi d’ansia (stati depressivi, disturbo ossessivo compulsivo…) e la situazione di pressione sociale e discriminazione vissuta dalle persone ACE. L’orientamento non è un disturbo psicologico, ma la discriminazione e l’invalidazione continua, le aspettative familiari e sociali che schiacciano l’individuo e ne negano l’essenza e il diritto alla felicità possono ledere anche gravemente la salute mentale.  

Ruolo della terapia e accesso delle persone ace ai servizi di salute mentale. 

Le persone ACE hanno diritto, come qualunque essere umano, all’accesso ai servizi di salute mentale, fermo restando che il loro orientamento sessuale non è un disturbo, e che l’obiettivo della terapia deve essere aiutarle a vivere meglio, a superare le ansie e ad accettarsi. 

E’ chiaro che in un mondo e in un paese, l’Italia, in cui la psicologia mainstream, ben rappresentata sui mezzi di comunicazione di massa e in particolare su internet, aderisce al modello secondo cui alle persone asessuali “manca qualcosa”, la diffidenza delle persone asessuali nei confronti degli specialisti e delle terapie ha qualche ragione d’essere. A questo si aggiungano le difficoltà di accesso ai servizi pubblici di salute mentale, che non hanno una copertura sufficiente del territorio nazionale e non sempre possono contare su personale adeguatamente formato, e i costi elevati delle terapie private. Si arriva al punto, a volte, di dover pagare salate parcelle per sentirsi dire che “trovarsi unə ragazzə potrebbe fare solo bene”, o che il problema è che non si godono la vita a casa di una “eccessiva tendenza a riflettere su tutto”.

Le persone asessuali spesso sono costrette a soffrire in silenzio, per paura di vedere sminuito il proprio disagio e la propria sofferenza, o peggio, di vederle collegate alla “stranezza” di essere asessuali e al presunto “trauma” che le ha rese tali. 

Per uscire da questa situazione di stallo è necessario che psicologз e terapeutз di nuova generazione, capaci di distinguere la salute mentale dall’orientamento, e che mettono al primo posto i reali bisogni dell’individuo e non la risposta alle aspettative sociali, facciano rete, anche di concerto con le associazioni per la tutela dei diritti ACE, e diffondano informazioni corrette sui mezzi di comunicazione, soprattutto online, cercando di arrivare alle persone più fragili, spesso vittime di messaggi sbagliati e invalidanti diffusi da fantomatici esperti. Questo sarebbe il primo passo verso la costruzione di una rete fisica, reale, che, magari appoggiandosi ancora una volta al tessuto associativo, fornisca un’assistenza concreta a chi ne ha bisogno. 

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