Quando si pagava la tassa sul celibato

C’era una volta, in Italia, un regime così buono che faceva solo il bene del popolo, che faceva arrivare i treni con una leggendaria puntualità, e che teneva in modo particolare alla nascita di nuovi bambini.

Quel regime, tanto buono, aveva infatti bisogno di figli da mandare a morire congelati in Russia, sulle montagne jugoslave ed albanesi, oppure in Africa, tentando di costruire prima, e difendere po, un effimero quanto inutile “impero”, oppure a difendere un colpo di stato in Spagna, e di vederli, poi, fucilati dal “fido alleato” per essersi rifiutati di portare avanti le politiche di sterminio.

Un giorno, il Capo di quel regime (e lui era il più buono di tutti), un po’ per queste ragioni, un po’ per ingraziarsi la Chiesa dopo una vita da ateo, propose una legge che punisse, in qualche modo, chi si ostinava a non dare nuovi figli alla Patria italiana.

Siccome in quell’era dorata di treni in orario i politici non stavano a chiacchierare in Parlamento la proposta fu quasi immediatamente esecutiva. Il 19 dicembre 1926 venne quindi approvato il Regio Decreto Legge numero 2.132 del Governo Mussolini, che sarebbe entrato in vigore il 13 febbraio 1927. Il nome, detto così, dice poco, perché la legge istituiva una tassa che è passata alla storia con il nome di “tassa sul celibato”.

La tassa serviva a punire gli uomini celibi in età fertile (tra i 25 e i 65 anni). Si dovevano pagare, nel 1927 (la tassa fu aumentata negli anni) 70 lire tra i 25 e i 35 anni (circa 60 euro del 2017), che si alzavano fino a 100 lire (85 euro) fino a 50 anni, per poi dimezzarsi negli anni successivi, fino a che non si era esentati dal pagamento della tassa, che aveva anche una parte proporzionale al reddito del soggetto.

I soldi ricavati sarebbero andati nelle tasche delle famiglie numerose, tramite le opere del regime tanto buono.

Il regime tanto buono amava le donne, che il Capo considerava “buone a far figli e portare le corna”, perché la “tassa sul nubilato” non venne mai messa in pratica.

La tassa venne abolita dal Governo Badoglio il 27 luglio del 1943, due giorni (di fatto uno) dopo la caduta di quel regime tanto caro.

Se qualcuno volesse sapere come finì la favola, la tassa fu un fallimento completo: la natalità scese dal 29 per mille del 1929 al 25,2 del 1930 al 23,2 del 1937, nonostante le politiche, un po’ ridicole, per la natalità di quel caro regime dai treni in orario.

Oggi, festeggiamo la Liberazione da quel regime, o meglio, dalla controfigura di quel regime che era caduto quasi due anni prima.

Il fascismo non fu solo quello dei rastrellamenti e delle fucilazioni, delle torture e dei vagoni piombati, del quale festeggiamo la fine il 25 aprile. Il fascismo fu, dall’inizio della sua avventura, un tentativo di manipolare la vita quotidiana delle persone al servizio dell’idea che la classe politica di allora aveva della vita delle persone.

Il fascismo, che continua a vivere, e del quale dobbiamo avere paura, non è certo quello dei tristi revival di Casapound o di Forza Nuova, ma quello dei Family Day, delle battaglie per la natalità del ministro Lorenzin, quello che vuole monitorare ed indirizzare le nostre vite da prima di venire al mondo, a dopo che il nostro cervello ha smesso di collaborare, quello che vuole dirci chi, se e come amare.

Il fascismo è quello che, sotto forma di “difesa dei minori” vuole impedire l’educazione all’affettività nelle scuole, è quello che, talvolta sotto le vesti rassicuranti di un vicino, di un collega o di un parente, punta il dito contro uno stile di vita diverso dal loro, mettendo il naso nelle nostre camere da letto, nelle nostre sale da pranzo e nelle nostre vite di tutti i giorni, al fine di reprimerle o ghettizzarle, e invocando l’aiuto della Legge per i propri fini.

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