Sarò interessante? Un po’ di sana afobia interiorizzata

Tempo fa ho partecipato ad un evento organizzato da Arcigay, dove avrei dovuto spiegare cosa fosse l’afobia e perche fosse importante raccontarla.

Con il mio intervento ho fatto una figura di merda colossale, per varie ragioni che vanno dalla mia asocialità cronica alla stanchezza, e la cosa mi terrà lontano dal parlare in pubblico per un po’. Ma, nel disastro comunicativo, almeno una cosa buona l’ho realizzata.

Mentre aspettavo il mio turno per parlare, ascoltavo i discorsi delle altre persone: persone trans, famiglie arcobaleno vittime delle politiche del governo, persone figlie di migranti, alle prese con una società che non ha proprio voglia di considerarle italiane a tutti gli effetti, c’erano racconti di violenze e di aborti. 

Ascoltavo e pensavo: ma veramente, con queste storie che vengono raccontate, a qualcunə può interessare qualcosa, non tanto della mia vita (alla quale, giustamente, si interessano in pochi) ma delle ragioni delle persone asessuali?

Ho sempre cercato di capire  come  definire questa dannata “afobia” nel migliore dei modi, e mi sono reso conto che la stavo vivendo in prima persona: mi stavo discriminando da solo, con una pratica che sancisce la tua elezione ad asessuale di quinto livello, ad un passo dal Nirvana. Quando saremo tanti ad arrivare a questo stato, il giorno nel quale gli asessuali domineranno il mondo sarà vicino.

E così, oltre che essere completamente nel pallone per dover parlare di fronte ad un pubblico, per nulla preparato perché sono masochista, poco convinto per quello che avevo elaborato sul nostro orientamento e completamente fuori tema, ho raggiunto il microfono anche con un sorriso stampato in faccia per aver pensato questa cazzata della conquista del mondo, cosa che temo si sposasse male con la storia precedente ad alto tono drammatico.

Eppure l’afobia era proprio lì: il pensare “ma cosa ci faccio a rivendicare qualcosa?”. Sono attivista da più di dieci anni. Ho fondato (e rifondato) un’associazione in tema, la prima del suo genere in Italia. Ho parlato di asessualità praticamente ovunque, ho portato la bandiera al pride. Ma come cazzo posso pensare per un attimo che quello che sto facendo no sia importante?

Ho sempre detto che se cerchi nell’afobia la sorella minore dell’omofobia, non la troverai mai. L’omofobia punta il dito sulla tua differenza. Sei il “frocio”, il “diverso”. L’afobia fa il contrario: ti viene detto, dalle stesse persone, con gli stessi fini, con gli stessi toni, che sei “normale”.

Afobia è quando sostieni che le persone asessuali non abbiano niente di cui doversi lamentare, perché ci sono cose più urgenti, c’è chi soffre di più. Noi possiamo aspettare.

E quindi possiamo essere messi in discussione. I nostri coming out non sono importanti. Non abbiamo compagni o compagne da presentare in famiglia. Non avremo corpi “imbarazzanti” da mostrare in giro.

Ciò che è più grave, è che questo senso di inadeguatezza, sommato al senso di colpa che ci è stato fatto venire per avere “invaso” un territorio “non nostro” come il mondo Lgbtqi(a), ed averlo fatto, in massa, nel momento sembrava “più facile” (attorno alla metà degli anni ‘10), lo abbiamo vissuto e lo viviamo per primi, quasi da esserne convinti.

Ma se siamo arrivati fin qui, vuol dire che “qualcosa” ci era successo. 

E questo qualcosa è ciò che nessuno potrà mettere in dubbio, nemmeno noi.

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